Sede della Polizia di sicurezza nazista, vi furono rinchiusi e torturati oltre 2.000 detenuti antifascisti, uomini e donne.
In Via Tasso, a Roma, una strada stretta del rione Esquilino, nei pressi della basilica di San Giovanni in Laterano, si trova – oggi – il Museo storico della Liberazione. L’edificio, costruito sul finire degli anni Trenta, è un palazzo di quattro piani più attico, con un giardino interno e due ingressi ai civici 145 e 155. Si presenta come un grosso fabbricato anonimo, dalla facciata giallo-arancio, costituito da appartamenti di tre stanze e servizi, destinati all’epoca alla piccola borghesia romana.
Durante l’occupazione nazifascista, tra l’11 settembre 1943 e il 4 giugno 1944, Via Tasso fu trasformato in un luogo di reclusione e di tortura, sede della Sicherheitspolizei, la famigerata SIPO, la Polizia di sicurezza nazista, dalla quale dipendeva la Gestapo (Polizia segreta del Reich). Vi transitarono oltre 2.000 detenuti antifascisti, uomini e donne, molti dei quali fucilati a Forte Bravetta, uccisi alle Fosse Ardeatine, destinati ai lavori forzati e deportati in Germania; molti sono figure eroiche della lotta per la liberazione di Roma, città Medaglia d’oro della Resistenza.
Alla fine degli anni Trenta, l’edificio, di proprietà del principe Francesco Ruspoli, è affittato all’ambasciata tedesca a Roma – allora ospitata nella Villa Wolkonsky, a poche centinaia di metri di distanza – che ne fa sede del proprio ufficio culturale e poi dell’Ufficio relazioni con la polizia italiana affidato, fin dal 1939, all’Hauptsturmführer (capitano) delle SS Herbert Kappler. Proprio grazie a questo incarico, Kappler poté costruire una fitta trama di relazioni con i funzionari della polizia fascista e del Ministero dell’Interno italiano.
Subito dopo l’occupazione militare tedesca di Roma, nel settembre 1943, l’edificio è interamente destinato a sede della SIPO (Polizia di sicurezza) e dello SD (Comando del servizio di sicurezza) alla cui guida rimane Kappler, promosso al grado di Obersturmbannführer (tenente colonnello). Al numero 155 di Via Tasso si installano la caserma e gli uffici delle SS, mentre il 145 è adattato a Hausgefängnis (letteralmente “casa-prigione”), collegata agli uffici dai corridoi passanti del primo e del terzo piano. È il più atroce dei luoghi di violenza “istituzionale” della Roma occupata, tra i quali si distinguono le caserme e i commissariati in cui operano i funzionari italiani che hanno aderito alla Repubblica Sociale, i bracci 3° e 4° di Regina Coeli gestiti dai tedeschi, le pensioni Oltremare e Iaccarino della banda Koch, i sotterranei di Palazzo Braschi della banda Bardi e Pollastrini. Tutte sedi in cui si consumano torture sanguinarie.
Via Tasso è considerata una prigione temporanea; qui vengono condotti, per essere interrogati, quegli arrestati sospettati di essere in possesso di informazioni sulle organizzazioni clandestine che sostengono la Resistenza e sulle reti di collegamento con gli Alleati. Il piano terra e il seminterrato sono destinati a magazzino. Gli appartamenti al primo piano ospitano gli uffici amministrativi: l’ufficio matricola, dove i detenuti vengono registrati, e l’archivio, dove sono conservati, insieme ai fascicoli e alle schede carcerarie, gli effetti personali dei prigionieri. Ad ognuno vengono dati in dotazione una coperta militare, una gavetta metallica e un cucchiaio di legno, poi sono fatti salire ai piani superiori, dove gli alloggi dal secondo al quinto piano sono stati trasformati in celle (alcune organizzate in “sezione femminile”). In totale si contano 30 celle, stanze di 5 metri per 6, con le finestre murate, che ricevono aria solo attraverso delle strette bocche di lupo. Qui, in certi momenti, arrivano a essere stipati anche 15 reclusi. I ripostigli sono trasformati in celle d’isolamento e gabinetti di tortura dove i detenuti sono sottoposti a lunghi ed estenuanti interrogatori per ottenere informazioni su nascondigli, nomi e piani delle organizzazioni della Resistenza romana.
All’approssimarsi della liberazione, tra il 3 e il 4 giugno 1944, Via Tasso è sgomberata in tutta fretta: l’archivio con i suoi documenti è distrutto. Gli ultimi prigionieri sono liberati dagli stessi romani che irrompono nello stabile e aprono le celle.
Il 15 giugno 1950 la principessa Josepha Ruspoli in Savorgnan di Brazzà, proprietaria dell’immobile, sigla un atto di donazione allo Stato di quattro appartamenti tra quelli impiegati come carcere, perché siano destinati ad ospitare in via esclusiva e permanente un Museo storico della lotta di Liberazione in Roma.
Per i romani quell’indirizzo rimasto per molto tempo impronunciabile (piuttosto si diceva: «là, a San Giovanni», ricorda Elvira Sabbatini Paladini, a lungo direttrice del Museo) è diventato l’immagine di un luogo sotterraneo e infernale, popolato da bestie e demoni, una vera e propria tomba per molti di coloro che da quel luogo oscuro riuscirono a fare filtrare la loro ultima testimonianza.